19/01/11

Etica, estetica e politica. Se abbassi la mutanda...2.0

Gloria a Francesca Pasquale. Rida la sua mutanda (e l'auditel) ancora per millenni.
Qualche anno fa mi incuriosì la sua storia. Ne feci un'apologia. Mi raccontava un certo modo di intendere la politica. Un modo tutto berlusconiano che confonde, nel senso che fonde insieme etica, politica e estetica. Il tutto passando dalle frequenze di telecafone.

Frequenze che l'hanno proiettata in politica, l'hanno resa papabile candidata a montecitorio. Adesso addirittura possibile

il terzo occhio

Un occhio discreto al di là della gabbiola. Un occhio a cui non sfugge nulla. Puoi anche non accorgertene ma calcola le tue mosse, le entrate e le uscite, i tuoi orari e i tuoi ospiti. Le tue abitudini, anche quelle sessuali. Un meccanismo di controllo poco invasivo ma di assoluta precisione. Viola senza illecito la tua privacy e, all’occorrenza, te ne dà conto.

La portinaia sta al palazzo in cui vivi come il secondino sta al carcere nel panopticon di Bentham. Lei ti controlla e tu non te ne accorgi. Aggira l’opinione comune e stabilisce una relazione perfetta tra la tua abitazione e una cella carceraria.

È da ingenui credere che si sia liberi in casa propria. A maggior ragione se c’è una portinaia all’ingresso del portone. Magari non vede dentro le quattro mura domestiche, ma è abile nell’intuire cosa vi succede. Ha una conoscenza rigorosa del traffico di individui in quella costruzione di mattoni forati e cemento. È il suo ruolo. Un ruolo di controllo. Garanzia d’ordine, decoro e giustizia. I suoi report seguono leggi e regolamenti quasi mai scritti ma capaci di ricalcare perfettamente l’opinione dei coinquilini del palazzo. E i report sono giornalieri, prendono la forma di una chiacchierata con la signora del primo o del terzo piano, che a sua volta parla con la dirimpettaia, uno scambio costante di informazioni che si arrampicano come graminacee raggiungendo tutti i campanelli, tutti gli zerbini del condominio. “Un gay avrebbe qualche difficoltà a vivere qui dentro”. Una frase detta quasi per scherzo a cena da una mia coinquilina, assidua frequentatrice del pian terreno. Era uno dei miei primi giorni a Milano. Si parlava della “Patty”, la proprietaria dell’occhio al di là della gabbiola. Una frase subito smorzata, edulcorata, con cui però mi si metteva in guardia. Una frase il cui senso mi è chiaro solo ora.

05/01/11

Napoli due punti e a capo

http://pensierinlibertavigilata.wordpress.com/2011/01/03/napoli-due-punti-e-a-capo/

Se ci vieni da solo puoi stare zitto e ascoltare. Puoi vedere, e magari parlare. Magari, più difficile, essere scambiato per un napoletano.

San Lorenzo, una traversa di via dei Tribunali. Scusa hai una sigaretta? No, ho del tabacco. Ie nun me le sacc’ fà. Te ne faccio una io. Fann doi, p’ me e l’amic mie. Giro le sigarette a due tipi sulla quarantina. Cappello di lana schiacciato in testa, viso consumato. Parlano tra di loro e bevono del tavernello in cartone. Poverissimi, parlano di soldi, di lavoro, di monnezza. Soldi non ce ne sono. Monnezza ce n’è troppa. Finisco le due sigarette e le accendono. Tu sei di Napoli? No. A’ vist cumm stam ‘nguaiàt? So i stranièr ca c portn a munnezz. Gli stanieri? Si i polacc, i rumen. So gend sporc e c’ levn a fatic.

Il tipo cercava di giustificare sè e i napoletani incolpando gli stranieri. Nu simm gent garbat, no gend e’ spazzatur. Incolpava gli stranieri, gend e’ spazzatur. Incolpava loro per la monnezza, che è quello che appare e crea scompenso, ma in congiunzione ci mette il tema del lavoro. E il lavoro diventa la loro colpa principale, quella che li rende colpevoli di tutto il resto. Lo rubano. Bisogni materiali. Una guerra tra poveri negli stretti vicoli del centro storico napoletano.

Percorri una strada del centro e passi in pochi metri dalla ricchezza al degrado. Dai negozi da grandi firme ai sottani in cui si vendono sigarette di contrabbando (da evitare le Marlboro). Per capire Napoli bastano cinque minuti a piedi. Da via Partenope, il lungomare, salgo per una strada stretta, a chioccia, che porta a Monte di Dio. Lascio i ristoranti pieni di gente facoltosa, ricca borghesia napoletana dai modi quasi nobili. Trovo dei bambini puliscono la strada difronte casa loro lasciando a dieci metri dall’ingresso cumuli di sporcizia. Sul muro vicino l’abitazione una scritta intima agli incauti la fine che potrebbero fare se decidessero di parcheciare lì. Uno dei bambini nota la mia Nikon. La guarda per un paio di secondi. Io noto lui. Entra di corsa in casa. Decido di allontanarmi a passo svelto. Cento metri e mi accorgo di essere seguito da un motorino. Sopra, lui e quello che penso sia suo fratello più grande. La strada è stretta e lunga, piena di cumuli di immondizia, di ragazzini che si rincorrono, di motorini che sfrecciano facendo lo slalom tra di loro. Prima che mi raggiungano giro sulla destra, un vicolo ancora più stretto e ancora più sporco. Qualche decina di metri e sulla sinistra intravedo piazza Plebiscito. La raggiungo. La Nikon è ancora con me. Attraverso la piazza e raggiungo il Gambrinus. Gente per bene prende il caffè nel pomeriggio di capodanno. Pellicce, bmw, sorrisi da giorno di festa, scambi di auguri reciproci e un po’ finti.

Napoli vive delle sue contraddizioni. Napoli è una città dissonante e la dissonanza è il suo fascino. Non senza rischi, vale la pena viverla da dentro. E vale la pena rischiare.

Bella della bellezza di una capitale, vive in un degrado da periferia del mondo. Pagana, vive di simboli, di credenze, di superstizioni e sforna altri prelati. Allegra e vitale, sa che è dura andare avanti. Sa che non c’è molto da stare allegri.

12/12/10

D'anime e d'animali


Col cazzo in mano davanti la cattedrale di Anversa un saltimbanco da spettacolo di sé ricordando al tempio e al mondo la propria e l'altrui miseria.

Dietro le geometrie gotiche, i giochi di luce delle vetrate, le profondità che innalzano sguardo e anima. Davanti lui e il suo cazzo di lattice e alito alcolico.

Il pubblico divertito plaude. Donne sulla cinquantina sghignazzano tra loro. Un bambino perplesso rigira tra le mani un pupazzetto rosso. Un ragazzo con la tipa sotto il braccio indica con l'indice il cazzo arancione: guarda non ti sembra proprio un cazzo quel palloncino?

Finito lo spettacolo il saltimbanco fa il giro col cappello in mano. Sorride. Raccoglie. Ringrazia. Suona la campana. Tutti a messa.