La portinaia sta al palazzo in cui vivi come il secondino sta al carcere nel panopticon di Bentham. Lei ti controlla e tu non te ne accorgi. Aggira l’opinione comune e stabilisce una relazione perfetta tra la tua abitazione e una cella carceraria.
È da ingenui credere che si sia liberi in casa propria. A maggior ragione se c’è una portinaia all’ingresso del portone. Magari non vede dentro le quattro mura domestiche, ma è abile nell’intuire cosa vi succede. Ha una conoscenza rigorosa del traffico di individui in quella costruzione di mattoni forati e cemento. È il suo ruolo. Un ruolo di controllo. Garanzia d’ordine, decoro e giustizia. I suoi report seguono leggi e regolamenti quasi mai scritti ma capaci di ricalcare perfettamente l’opinione dei coinquilini del palazzo. E i report sono giornalieri, prendono la forma di una chiacchierata con la signora del primo o del terzo piano, che a sua volta parla con la dirimpettaia, uno scambio costante di informazioni che si arrampicano come graminacee raggiungendo tutti i campanelli, tutti gli zerbini del condominio. “Un gay avrebbe qualche difficoltà a vivere qui dentro”. Una frase detta quasi per scherzo a cena da una mia coinquilina, assidua frequentatrice del pian terreno. Era uno dei miei primi giorni a Milano. Si parlava della “Patty”, la proprietaria dell’occhio al di là della gabbiola. Una frase subito smorzata, edulcorata, con cui però mi si metteva in guardia. Una frase il cui senso mi è chiaro solo ora.
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