24/09/09

Nel virtuale si cristallizza l'evanescenza del reale. Libro di facce e simulacri Pop dell'identità.


Guardavo la mia immagine su facebook e per la prima volta ho avuto l'impressione che fossi proprio io. Strano, quella foto quando mi è stata fatta vedere non mi somigliava affatto, non sembravo io; un po' sfocata, presa mentre ero in un teatro a Tordinona a Roma, sbarbato completamente, un po' assonnato ... Quella foto mi piacque perché non ritraeva l'immagine che io avevo di me stesso e mi piaceva! [in figura Caravaggio, Narciso]. Adesso invece inizio ad abituarmici, a riconoscermi. Ho visto me stesso e ho cominciato a pensare cosa ne potessero pensare gli altri. Ho cominciato a riflettere su qualcosa che poi ho pensato si potesse estendere a chiunque. Mi piacerebbe avere smentite o conferme, opinioni.
Mi spiego.
Avete mai provato a vedere foto che vi ritraggono senza che vi siate messi "in posa"?

Se vi è capitato non sarebbe strano che abbiate avuto l'impressione di non riconoscervi, come se quella figura ritratta in foto non vi riguardasse punto. A stento vi riconoscereste se qualcuno vi fotografasse, ad esempio, di profilo mentre siete occupati a farvi la barba, o mentre bevete una birra in un bar, o mentre perdete gli occhi davanti gli schermi di Paik. Qualcuno potrà anche gridare: ma non sono così Io! Già...

Foto che vi ritraggono in momenti random della giornata possono piacere o non piacere. Generalmente piacciono quelle che rispecchiano grossomodo l'immagine che uno ha già di sé, nella foto si riconosce in quanto io.
Vitangelo Moscarda, il protagonista pirandelliano di "Uno, nessuno e centomila", cerca disperatamente di vedersi come gli altri lo vedono voltandosi di scatto nelle vetrate dei negozi di Richieri, tante piccole istantanee in cui vedendosi mai "si vede". Non vi riusciva e mai ci sarebbe riuscito a vedersi veramente, per com'era. Ma allora chi era? Come poteva dirsi qualcuno se quel qualcuno era evanescente come l'immagine di sé riflessa in uno specchio? L'immagine che si ha di sé è destinata a perdersi, ciò che si è non si può cogliere e l'io è costretto a perdersi nei centomila che gli altri si figurano, risultando nullo, annullato, senza identità né stabilità. Senza vita.

Immagini senza vita, come statue di bassa fattura. Sono queste le foto in posa. E facebook è un libro di facce fotografate, di identità fissate, di cristallizzazioni di un Io che in realtà nella vita è recalcitrante ad ogni cristallizzazione. La realtà virtuale imprigiona nell'etere l'eterea figura concreta di un uomo, di un volto. Su facebook ognuno sceglie la sua foto, la sua immagine.
E ne vedi tanti che si fotografano in casa, con la luce fioca di una lampada e gli occhiali da sole a darsi un tono di "carisma e sintomatico mistero". O quelli che si fanno fare le foto nelle posture più strambe, andature dinoccolate, gambe incrociate, sguardi languiti e puliti di pulizia digitale; generalmente sono artisti, pseudoartisti, ma anche gente comune. Sempre e comunque lavori di costruzione della propria identità.

Dopo aver allestito il book delle facce e degli "atteggiamenti" tocca la costruzione della propria personalità: e allora ci si allaccia a "quelli che la nutella" o "che la vongola solo col limone" o che "dopo il sesso (peggio, la scopata) la sigaretta". Ovviamente i ragazzini ci cascano più di frequent
e perché la loro è un'età dove la costruzione dell'identità è un obbligo biologico, sociale.
Poi le reti, i test, e tutto ciò che serve a limare l'immagine che uno vuole assumere e che gli altri possono vedere. Ripetendo il paradosso, nel virtuale si cristallizza l'evanescenza del reale e il reale si presenta come simulacro Pop [avete presente le serigrafie di Warhol, no?, in immagine, Mao]
della nostra identità.

Per Guy Debord (La società dello spettacolo) l'immagine è diventata la forma finale della reificazione. Tradotto nei termini che servono a noi, nell'immagine si ha il simulacro di un'originale mai esistito, un feticcio dell'idea platonica che si ha di sé stessi. Si è solo quell'immagine in un certo senso, non si vive ma si è quello.

La passione crescente per la fotografia, dai servizi fotografici dell'arrotino che convola a nozze con la salumiera alle foto da I-fone fuori La lampara disco night, può essere letta come necessità di un soggetto svuotato di darsi una storia, di storicizzarsi costruendosi, lasciare una traccia di sé etc....
Le città che fanno da sfondo alle foto di un viaggio testimoniano un passaggio, un'esperienza che si vuole pubblicare. Si vive qualcosa per memorizzarla nell'hard disk estraibile della macchina fotografica. Ci si rivede nelle macchine digitali, se ci si piace (se ci si riconosce) si tiene la foto, altrimenti si cancella quella parte di se mis-conosciuta (ma non meno reale) e si conserva il simulacro di sé che più aggrada, che poi verrà a rimpinguare gli album di facebook dove la nostra identità dura e fragile come cristallo può essere ammirata anche da noi stessi, realizzando il sogno del Moscarda, che per Richieri continua a vagare nella folle ricerca di se stesso.



1 commento:

  1. e il fantasma delle foto cancellate assilla!

    trompe-l'oeil: vertigine tattile che ripropone il voto folle del soggetto di abbracciare la propria immagine, e perciò stesso di svanire. Poichè in realtà la si coglie solo quando la nostra identità vi si perde, o quando essa risorge come la nostra morte allucinata.

    Baudrillard. della seduzione

    (luca)

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