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09/01/10

Dei vizi e delle virtù. Puppa Fumo.






Fermo la bici sul lungo mare. Sentivo che il bisogno veniva dai polmoni, o da quelle zone lì, senza riuscire a capire se stavo andando in debito di ossigeno oppure avevo solo voglia di farmi una sigaretta. Ad ogni modo mi sarei fatto una sigaretta. E' che col mio corpo non è che abbia mai avuto un dialogo costruttivo.
Me la faccio, aspetto, va molto meglio. Altezza L'Incontro. Un presagio.

Due piccioni si stavano dividendo un lauto pasto fatto di pane raffermo, frattaglie e roba simile. Scarti di un supermercato poco vicino mal riposti ai piedi di un bidone grigio, stracolmo, dello stesso colore dei piccioni. Poco dopo uno stormo di gabbiani plana controvento, disponendosi intorno al banchetto dei piccioni. Formano un semicerchio perfetto segnato da una ventina di
loro, punti bianco candido sul cemento.

A turno si avvicinano ai commensali, due, tre, quattro alla volta. Il grosso del pasto è concentrato proprio sotto il bidone ma delle briciole si sono sparse tutt'intorno e compito dei primi avventori è quello di accaparrarsi quella parte. Ma i piccioni li vedono e, ora l'uno ora l'altro, si girano per scacciare gli intrusi. Mai un vero contatto tra i volatili. Bastava che un piccione si voltasse
minaccioso per fare in modo che i gabbiani l'aggressività e le cattive intenzioni dell'avversario, indi allontanarsi intimoriti.

Cosa strana è che quando un piccione si gira per difendere il proprio pasto becca il terreno per raccogliere le briciole divenute oggetto del desiderio dei gabbiani. Quasi a sfregio, quasi a dimostrare che nulla sarebbe potuto sfuggire al loro controllo. Altri tentativi da parte di altri gabbiani, tutti fallimentari, tutti si fermano prima di un possibile contatto con uno dei topi
dell'aria. La scena va per le lunghe e ho il tempo di fumare e dedicare qualche pensiero al cianuro a quel cazzone di Povia.
I suoi piccioni intanto continuano ad ingurgitare una quantità sconsiderata di cibo. Davvero troppo, quasi non ci si crede che animaletti così piccoli possano avere uno stomaco di una tale

capacità. Finiscono tutto in una quindicina di minuti, beccano gli ultimi rimasugli davanti ai gabbiani impotenti e tenuti a distanza di sicurezza. In numero sempre crescente, i gabbiani assistono alla fine del banchetto inerti, senza più nemmeno accennare ad un nuovo tentativo.

I piccioni finiscono, raccolgono coi loro becchi unti anche le ultime rimanenze di cibo e volano via, intimorendo con questo gesto per l'ultima volta i gabbiani. Questi ritornano dopo qualche secondo, fanno un breve giro di perlustrazione, giusto il tempo di accorgersi che per loro non c'è davvero più nulla.

La durata dello spettacolo mi ha permesso di fumare qualche altra sigaretta e di accorgermi che il mio era davvero un disperato bisogno di fumare.


[Immagini prese da Uccellacci&Uccellini, PPPasolini]

20/11/09

Le invasioni barbariche. Contributi dell'immagine alla gnosi da Aristotele alla D'Urso


Uno sguardo commosso al passato. A Fahrenheit di Truffaut, a Brazil di Gilliam, a Il pasto nudo di Cronenberg. Videodrome... Otto anni fa, un proiettore, una stanza nel centro sociale, un ginepraio di sigarette, condimenti per drum e alcol. Sembrava tutto così intelligente allora ma se allungo le dita non riesco a cogliere quasi più niente - dove è finito?
Nulla, o quasi; e quel che è è abbastanza. Allora accendo la TV ad un orario insolito, le cinque di pomeriggio. La suina è il mio Autodafé. Posso assistere ad uno dei tanti esempi di come viene quotidianamente mortificata l'intelligenza dai media.

Barbara D'Urso intervista una giovane donna africana. Sahmira. Lei racconta con un italiano stentato le violenze subite. Abusi, aborti, pestaggi. Se incespica nel ricordare qualche particolare doloroso il volto della D'Urso le viene incontro quasi sofferente. "Io so che..." e le indica le parole corrette, quelle più vicine alla logica della spettacolarizzazione.

Shamira è completamente coperta in volto per evitare di essere riconosciuta dai suoi terribili e vendicativi aguzzini. Una sciarpa copre gli zigomi e il naso sul quale poggiano due ampie lenti scure. Gli autori del programma hanno giustamente pensato a salvaguardare la sua identità, dice magnanima la D'Urso inorgoglita da cotanto magnanimo team, mentre continua ad imboccare alla ragaza le parole corrette da dire, le cose giuste da raccontare.

Quel volto coperto è ciò che ha catturato la mia attenzione mentre facevo zapping. Sciarpa e occhialoni neri su cui si elevava un'assurda parrucca bianco panna di capelli ispidi e foltissimi che si ergevano a raggiera per tutta l'inquadratura. Una trappola perfetta, no?

La storia della giovane donna è commovente. La D'Urso stessa passa dagli occhi lucidi alle lacrime. A quel punto si compie il capolavoro. Chiede a Shamira di raccontare le violenze subite attraverso i riti vudù. Shamira pare non percepire il messaggio. Lei rincara la dose "Quelle ferite, la gente deve vedere, è giusto, la gente deve sapere!".

Breve parentesi intellettuale.
La società dello spettacolo, si sa, si basa sul vedere, sulla vista come organo di senso. Pasolini e Debord possono aiutare molto meglio di me a comprenderne i tratti. Ma seguitemi un attimo in questo breve excursus storico filosofico che a qualcuno piace tanto.
Il vedere è ciò che meglio caratterizza l'attività gnoseologica dell'uomo: Aristotele. Il vedere fa teoria (in greco theorein, vedere appunto) cioè visione del mondo, ma anche valori condivisi, bagaglio comune di conoscenze. Il vedere è una sorta di sintesi estetica e epistemica: Baumgarten.
Al theorein della metafora Wittgestein dedicherà alcuni paragrafi delle Ricerche e Musil la seconda parte de L'Uomo senza qualità.
Lukacs dice invece che in parallelo la razionalizzazione e meccanizzazione del processo lavorativo portano l'attività umana a risolversi in mera "contemplazione", cosa che Debord riutilizzerà per definire il concetto di società dello spettacolo.
Pasolini in Scritti corsari dedicherà molte pagine alla televisione come mezzo di formazione della coscienza media, come omologazione e veicolo prediletto dell'acculturazione.

E' così dunque che duemilacinquecento fottutissimi anni di filosofia trovano concretizzazione in nella barbarica D'Urso. E' in conseguenza alla sua sollecitazione, consentitemi, baumgartiana che Shamira infatti si alza la maglietta e fa vedere delle ferite di coltello che disegnano una croce su metà ventre. Dice che appena fatte sono state unte con peperoncino, cosa che, ammette lei, rende le ferite di una consistenza particolare. Ma l'audience pretende ancora e Shamira è portata a mostrare altre ferite, sul collo e sotto le tempie, cosa che la porta a togliersi la sciarpa e a scostare il parruccone protettivo.

Bene. In meno di due minuti di spettacolo la D'Urso ha sfanculato l'irriconoscibilità (inutile, farsesca) della sua giovane e sfortunata ospite mostrando alle telecamere segni inequivocabili di identificazione, oltre a buona parte del viso. E lo faceva tra le lacrime, sue e del suo pubblico cazzone.