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10/04/10

La dittatura dei prolet sessantottini

Scendeva ogni giorno dalla scala d'emergenza all'esterno dell'ala principale di Mirafiori. Lui davanti, al seguito lo stuolo di portaborse e altri portantini di varia natura. Un numero incredibile di studenti riempiva l'aula delle sue lezioni dove sovente ripeteva sempre le stesse cose. Quell'anno paradossalmente il corso era sull'eterno ritorno dell'uguale. Spesso si lasciava la porta aperta perchè l'aula più grande della facoltà non riusciva a contenere tutti e quelli che non ci entravano rimanevano sull'uscio, gambe incrociate e blocchetto degli appunti poggiato sul ginocchio. Il suo peso accademico era enorme, ma non starò qui a parlare di lui ancora a lungo: il fatto è che il mio relatore per me era il classico esempio di prolet sessantottino sessantottenne.

Incancreniscono ogni piega della società e davvero poco sfugge al loro potere. Hanno lottato estasiati dall'idea di liberarsi dal "fascismo democristiano" e lo hanno riprodotto, con l'aggravate di pretendersi inamovibili. Nelle università hanno creato una particolare alchimia di potere e legittimazione agli occhi dei più giovani, i quali credono in loro, li vedono come simboli di una storia che ancora fa accapponare la pelle, che ancora accende gli animi, le speranze di poter riviverla in qualche modo. Tant'è che ogni protesta studentesca viene accomunata, grazie a media complici e pressapochisti, agli "anni della contestazione". Ma questi non vogliono contestare un cazzo, fanno il gioco dei loro padroni, ovvero i prolet sessantottini. Ma lo stesso meccanismo si è riprodotto anche altrove, nel mondo politico, in quello dei media, in certi tipi di aziende, nelle istituzioni. Tutto è fermo, un po' Giuseppe Tommasi un po' Foucault. Ne ho già parlato tempo addietro. http://pensieriinlibertavigilata.blogspot.com/2009/05/dallonda-alla-risacca-breve-storia.html

Più furbamente di chi li ha preceduti, i vecchi prolet hanno elaborato sistemi di potere perfetti, capaci di tenere tutto fermo almeno che non siano loro a volerlo. Nel loro mondo l'elezione avviene per cooptazione - mi piaci, fai come ti dico, sei mio. Generalmente la scelta ricade sui più furbi o sui mediocri, mai sui migliori. Comunque cazzoni manovrabili.

Causa. Il risentimento per la loro sconfitta ha impugnato l'arma della diffidenza (e dell'invidia) nei confronti dei più giovani costringendoli a trattamenti da sottoposti, da schiavi, pagati poco, se pagati. E' così che ci inculano. Il resto lo fa l'abominio della logica della promessa e dell'attesa: aspetta, non mollare proprio ora, ancora un po' e anche tu ce la fai. Ti nutri di questa logica genitoriale e conservatrice. Una logica che induce l'ingenuo a pensare che anche per quelli che sono già lì sia stato così, che arriverà il loro turno di poter fare il bello e il cattivo tempo. Non è vero, aspetterete invano. Sarebbe d'uopo prenderli sonoramente a calci nel culo, ma siete troppo vili per farlo e le vostre lingue troppo abituate al sapore della merda.

Lo stuolo di cui sopra mi nauseava ogni volta che lo incrociavo. Eppure quello stuolo ha il fascino della scalata sociale, sa di strada buona per arrivare, sa di possibilità di poter fare telefonate gaudenti a casa -"ce l'ho fatta". E' questa l'arma del ricatto perché se è la meta, il successo l'unico parametro per determinare la buona riuscita di un'esistenza, se inomma l'essere e l'apparire sono la medesima cosa, non ha senso l'opposizione ma solo l'emulazione, l'attesa, la speranza destinata ad essere disattesa [De Chirico, l'enigma del tempo].

26/03/10

di passaggio


Una stupida notorietà, locale, inutile, indigesta, mi ha portato a decidere gradualmente di abbandonare questo spazio e rinchiudere i miei pensieri in quella scatola piena di buchi sorretta dai muscoli del collo. Un'inutile voglia di discrezione, di intimità. Tutti i giorni gioco al ribasso, torco le dita, digrigno i denti, abbozzo sorrisi nervosi. Fino al limitar del giorno. Poi bevo. E' difficile pensarmi diversamente, ma preme la voglia di scardinare i legacci al suolo, guardare altrove, con la concentrazione folle dell'ossesso.

In cinque anni di università ho avuto a che fare con la mediocrità degli scolarizzati, a roma poi con quella degli enaudi, degli andreotti, della roma bene insomma, quella che gli altri si ingegnano a trovare il verme migliore da infilzare all'amo prima di cacciarglielo in bocca. Captatio benevolentiae grossolane che ovviamente funzionano sempre. Il potere è stupido. Il mondo si divide tra chi è già arrivato e se la mena e chi gli siede intorno e cerca di spingere la sedia in sua prossimità. Tutti falsi, teatranti, infingardi. Non ho mai trovato nessuno senza peli sulla lingua perché i culi sono troppi, oltremodo villosi e con crescita miracolosa.

Quando poi esci e ti guardi intorno è una tragedia. Bisogna mantenere il basso profilo, sempre, comunque, a qualsiasi costo. Stretti nella morsa della media statistica, meglio stare un tantinello sotto che non si sa mai. Il mondo del lavoro è una merda. L'invidia dei mediocri è una merda. La mancanza di meritocrazia è una merda. Le ragazze idiote sono una merda, specie se brutte e avvezze a stati mentali premestruali prolungati. Meglio leggere Celine, Tacito, Houllebacq e fare finta che il tempo sia morto con Philip Glass.

27/05/09

Dall'Onda alla risacca. Breve storia dell'autunno più caldo dell'ultimo ventennio.


Avrei dovuto scrivere questo post un po' di tempo fa, ma non ne ho avuto il tempo. Forse adesso è privo di quella vis che da fragranza e incisività alla descrizione di un fatto quando è immediatamente presente alla coscienza. Ne guadagnerà forse in mediatezza e equilibrio. Forse.

L'onda non mi ha bagnato. Perché è chiaro che nell'onda ci si bagna. Pretende di bagnare, di spazzar via, ma l'onda non spazza via nulla quando è bonaccia e si rivolta su se stessa fino a placarsi sulla riva. Il nostro è tempo di bonaccia e forse lo sarà per decenni ancora. Quando le acque si increspano spesso è dovuto a fatti contingenti, piccole correnti in un piccolo golfo. Increspature, sospinte dal Noto, e poi risacca, l'inevitabile movimento cullato del ritorno, quando l'onda trova un'ostacolo che la spezza. Il Noto in autunno preannuncia sempre tempesta e sovente porta placide piogge calde.

Questa volta sembrava facesse proprio sul serio. Gonfio e arrabbiato, rosse le gote, venato il collo avvezzo alla contrazione del rabbuffo. Questa volta ci credeva anche lui, il primo vento autunnale, sospinto anche dalla memoria di quelli degli anni passati che sui giornali scrivevano di nuova stagione di lotta, di nuovo fermento.
Le facoltà di fatto fremevano. Organizzazioni politiche danzavano la pioggia dopo averne per anni dimenticato i passi, ché la pioggia era finalmente arrivata, inattesa, calda del vapore d'agosto ma capace di dissetare le gole arse.

Si inneggiava il 68. Tutti ne parlavano. "Siamo come", "se vogliamo è un po' come", "Idealmente siamo uguali a". 2008. Si sperava nei corsi e ricorsi, o qualcosa del genere.Esatti quarant'anni e ciò rinvigoriva la fiducia.
Le bancarelle di paccottiglia fuori l'Università intanto facevano affari d'oro. A ruba gli occhiali a goccia e lenti colorate, camice di lino cremisi, sacche da pane, collane a palle marroni. Cortei giallo-grigi-rossi-verdi. I capi-popolo più accorti rinfoltirono il loro guardaroba velocemente convinti che le idee sarebbero venute da sé.

Una questione d'immagine. Tutta la protesta ruotava intorno a remake di tempi passati da rinsavire. Mitologie. Forse qui qualche persona più intelligente di me può cogliere un aspetto particolare che potrebbe aver portato in breve tempo dall'onda alla risacca. Se nel 68 si guardava al futuro, si aveva un progetto, a novembre si è guardava al passato meno i suoi progetti, almeno nelle consistenti fila della protesta. Non parlo degli organizzatori, dei militanti, di quelli che danzavano la pioggia insomma, ma delle singole gocce. Era sconcertante notare che nessuno aveva bene in mente il perché e il come. Si viveva la situazione, senza troppe domande ma con un sacco di risposte. E' effetto del nostro tempo; mi è difficile immaginare una protesta seria in cui risuonano più gli i-phone che i megafoni. Simbologie, tutto qui.

Ma passata l'onda rimangono i ciottoli. E i ciottoli sono i rappresentanti degli studenti eletti nelle Università. Ne ho visti di tutti i tipi, li ho visti ammassarsi nelle assemblee, darsi spintoni, speravo in qualche zuffa o qualche sputo almeno. Mi diverte molto vedere la gente sputarsi contro.
Virgulti agitavano braccia e sedie. Si discuteva come se in ballo ci fossero i parametri della salvazione eterna: Mirafiori moderna Nicea. Per rimanere in tema, si discuteva anche di divinizzazioni e sacralità da rispettare. Metodi, decaloghi e preci.

Come nel quadro di Katsushika Hokusai, dietro l'immagine dell'onda si cela la tranquillità del resto, il monte Fuji assunto come simbolo imperturbabile del sempre medesimo. L'onda non lo smuove, il monte pare non accorgersi nemmeno del suo fragore. S'è detto, l'onda passa e rimangono i ciottoli. Questi adesso vengono posizionati nei luoghi del potere, consigli di facoltà, assemblee pletoriche e fumose, alle pendici del monte. Adesso ne fanno parte, sono sassolini della montagna. L'onda intanto si è ritirata, con qualche fronzolo da bancarella in più; paramenti liturgici di una religiosità nel tempo della morte di dio.